martedì 24 dicembre 2013

LA PRODE LANZILLOTTA E I PALADINI DELLE PRIVATIZZAZIONI

 In barba a tutti i referendum anti-privatizzazioni, nella commissione bilancio del Senato è stato votato un emendamento presentato dalla senatrice di Scelta Civica, Lanzillotta, riguardante il decreto “Salva-Roma”.

Questa modifica vincola le risorse per finanziare il bilancio di Roma alla privatizzazione, tranne che dell'ACEA, delle altre aziende pubbliche e alla possibilità di licenziamento per quelle in perdita.

Ora non sappiamo quale sarà l’esito finale dei passaggi parlamentari, ma purtroppo chi grida o griderà allo scandalo o è in mala fede oppure non si rende conto della poca consistenza dell’istituzione referendaria nella democrazia capitalista. Se infatti i quesiti referendari non sono sostenuti da una reale forza di opposizione nei territori che pratichi l’azione diretta a sostegno degli stessi, gli speculatori capitalisti non perderanno tempo a riconquistare quel terreno solo formalmente perso con i risultati dell’ultimo referendum.

Specialmente in un periodo come questo dove, a causa delle ridotte possibilità di profitto, gli speculatori rivolgono le loro fameliche fauci capitaliste nei confronti dei beni comuni e delle risorse collettive.
Questa vicenda dimostra ancora una volta che per avere dei servizi pubblici efficienti e inattaccabili dagli speculatori c’è bisogno del controllo diretto degli organismi territoriali dei lavoratori e delle lavoratrici. La gestione pubblica, così come concepita dagli enti statali centrali e territoriali, non è sufficiente a garantire che le risorse collettive non cadano nelle mani del mercato capitalista, così come, d’altra parte, non è sufficiente a garantire che le aziende pubbliche non diventino terreno di pascolo della corruzione legata al mantenimento del potere dei partiti borghesi, così come non è sufficiente a impedire il connubio tra enti pubblici e imprese private nel perverso gioco delle tangenti legate alla sussidiarietà.

Questa vicenda dimostra ancora una volta, inoltre, che a difendere gli interessi immediati delle classi subalterne non possiamo delegare lo Stato e le sue diramazioni territoriali, così come non possiamo affidarci alla democrazia come la conosciamo, sia quella rappresentativa sia quella della pratica referendaria se non supportata dalla nostra azione diretta nei territori, che deve passare attraverso la nascita di forme organizzative orizzontali che esercitino un controllo e sviluppino vertenzialità con enti e gestori per smascherarne sprechi burocratici e metterne in evidenza la lontananza dalle esigenze reali delle classi sfruttate.
 Solo il controllo diretto degli organismi territoriali dei produttori può impedire fenomeni come la “parentopoli” dell’ATAC; solo il controllo diretto dei lavoratori e delle lavoratrici può impedire spese inutili come quelle legate ad un numero spropositato del parco dirigenziale; solo il controllo diretto dei produttori può garantire una gestione razionale, socialmente ed ecologicamente etica delle risorse collettive.
 
21 Dicembre 2013
Federazione dei Comunisti Anarchici
Sez. di Roma - Luigi Fabbri

sabato 21 dicembre 2013

SCORCIATOIA NAZIONALISTA O AUTODETERMINAZIONE DI CLASSE?


Aumenta incontrastata la pressione del Capitale europeo nei confronti delle classi subalterne del continente, che in una fase di contrazione produttiva e di conseguente riduzione delle risorse, concentra la sua attenzione famelica su più fronti.
Sul fronte del lavoro assistiamo al continuo restringimento delle conquiste e dei diritti acquisiti in decenni di lotte dai lavoratori e dalle lavoratrici, con lo scopo evidente da una parte di ridurre all’osso i costi produttivi, a favore del profitto, e dall’altra di contrastare la risposta, se pur ancora insufficiente, della classe lavoratrice, con il tentativo di espellere dalle fabbriche qualsiasi forma di reale dissenso, specialmente se esso veste i panni rappresentativi dell’autorganizzazione e dell’autonomia di classe. Tale attacco si traduce in espansione del lavoro non contrattato, aumento degli orari lavorativi con basse tutele e bassissimi salari e conseguente aumento dell’ intensità dello sfruttamento.
Intanto continua e s’intensifica l’assalto alle risorse ed ai beni collettivi. Abbiamo visto che fine hanno fatto i referendum sull’acqua: la vittoria elettorale non supportata da una reale dimostrazione di forza nei territori, non è servita ad arrestare la tendenza alla privatizzazione delle risorse collettive. E così come sempre avviene in un periodo di crisi economica e di ulteriore impoverimento delle classi sociali più deboli, i capitalisti aumentano le loro ricchezze con la svendita delle proprietà pubbliche mobili ed immobili; spesso usando la scusa del ripianamento del debito pubblico, nascondendo ad arte che non è nemmeno con delle entrate una tantum che si possono risarcire gli sprechi del parassitismo borghese. Siamo al piglia adesso più che poi, grande esempio di lungimiranza capitalista! La stessa lungimiranza che non fa mollare l’osso del TAV allo Stato e al Capitalismo italiano, pubblico e privato, allettati dai guadagni facili veloci e devastatori, alimentati dalle risorse pubbliche.
Lo stesso avviene per il welfare, che dopo decenni di lotte sindacali e sociali era considerato uno dei più avanzati dell’occidente, e che subisce oggi un’erosione continua ed inesorabile, mettendo sempre più in discussione concetti che ritenevamo inattaccabili, come quelli di istruzione e assistenza sanitaria accessibili e di qualità per tutti. Per non parlare delle pensioni, che dopo aver subito la speculazione dei cosiddetti “fondi pensione”, sono sempre più ridotte, per i sempre più rari fortunati che ne beneficeranno, a puri simulacri di sopravvivenza. In un momento in cui, a causa della deindustrializzazione, con l’aumento della disoccupazione dovuta alla chiusura di fabbriche ed alle ristrutturazioni, sarebbe necessario un intervento nella modifica degli ammortizzatori nel senso della loro estensione alle decine di migliaia di lavoratori rimasti senza reddito.
Il tutto avviene in un contorno dominato da una profonda crisi delle rappresentanze storico-istituzionali, politiche e sindacali della sinistra, che vuoi per incapacità e/o per complicità, non riescono più a impersonare, nemmeno parzialmentele esigenze delle classi sociali subalterne.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la deindustrializzazione con la progressiva chiusura delle fabbriche; l’aumento dell’esercito dei disoccupati, i suicidi di chi non riesce più a garantire una vita dignitosa a se stessi e ai propri cari; la privatizzazione dei servizi integrati con il conseguente peggioramento della gestione e l’aumento delle bollette; la progressiva distruzione della sanità e della scuola pubbliche; la distruzione del nostro patrimonio naturale; l’inquinamento di interi territori con la scusa della produzione necessaria al mantenimento dell’occupazione. Un generale impoverimento sociale ed economico che colpisce prevalentemente e con più intensità le classi storicamente sfruttate dal Capitale ma che intacca oggi anche la prosperità del cosiddetto “ceto medio”, il cui malcontento, così come storicamente accade, viene pilotato ed orchestrato ad arte dalla destra fascista, protetta e sostenuta dalle forze di Stato. Mentre ben altra sorte tocca a tutte le manifestazioni di dissenso e di opposizione sociale che si rifanno ai valori solidali  e di classe della sinistra.
Oltre alla crisi strutturale del capitalismo ciò che determina questo scenario sono anche le politiche imposte dalle grandi borghesie europee, specialmente quelle finanziarie, degnamente supportate dalla BCE, che impone in tutta Europa la sua dittatura finanziaria fatta di autoritarismo padronale e di vincoli di bilancio.
In questo panorama c’è chi propone soluzioni nazionaliste come l’uscita dall’euro ed il ritorno alla moneta nazionale, il tutto condito dagli slogan tipici dell’ultra destra fascista ed identitaria. Soluzioni nazionaliste, che vengono proposte come se fossero la panacea alle macerie prodotte, è importante continuare a ribadirlo, dalle disfunzioni strutturali, fisiologiche e periodiche del sistema economico capitalista.
Non esistono soluzioni nazionaliste buone per le classi subalterne. Esse sono figlie dell’interclassismo populista e social-fascista. Anche se spesso, con le loro sirene nazional-popolari incantano molte correnti stataliste della sinistra marxista. Questo succede specialmente quando il panorama sociale è caratterizzato dalla debolezza dei rapporti di forza delle classi sociali subalterne e c’è chi pensa di risolvere i problemi legati allo sfruttamento economico delegando lo Stato a prendere misure di tipo protezionistico. Ma l’uscita dall’euro, ad esempio, e la conseguente svalutazione monetaria nazionale, provocherebbe soltanto dei benefici momentanei e farebbe precipitare ben presto in una situazione di crisi economica in cui sarebbero sempre le classi economiche più deboli a pagare il prezzo più alto.
Non c’è una scorciatoia quindi: o cambiamo i rapporti di forza in nostro favore con la lotta e l’azione diretta nei territori e nei luoghi di lavoro, o rimarremo sempre preda delle mistificazioni e dell’inquinamento delle ideologie borghesi. 
Occorre quindi che l’insofferenza e lo sconforto individuale diventino, nei territori e nei luoghi di lavoro, rabbia collettiva e organizzazione di classe a prassi libertaria, con la capacità sociale di lottare per tutti i diritti primari, da quello dell’abitare, a quello dell’assistenza sanitaria, e la capacità politica di respingere qualsiasi sirena nazionalistica ed avanguardistica.  Nuove forme di rappresentanza non possono fondarsi che sulla ricostruzione delle organizzazioni di massa,  capaci di difendere  gli interessi immediati  dei lavoratori su base anticapitalistiche, nei posti di lavoro e nel territorio,  e di un movimento politico che  attinga dall’anarchismo di classe, organizzato e rivoluzionario, strumenti e contenuti per la difesa degli interessi storici delle classi subalterne, nella prospettiva di un cambiamento sociale comunista e libertario.
Tutto ciò significa seminare, li dove i nostri e le nostre militanti sono presenti, la pratica dell’autogestione e dell’azione diretta, e di propagandare con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, il germe dell’autonomia di classe, cercando e facilitando la nascita di forme di resistenza, di autorganizzazione e autogestione economica e sociale. Come abbiamo già detto in altri nostri comunicati: “La democrazia diretta non si improvvisa ma si coltiva, non passa solo dai forum ma cresce nei posti di lavoro, ha bisogno della solidarietà, dell’autogestione, della memoria, della lotta di classe.”
Consiglio dei Delegati
Federazione dei Comunisti Anarchici

Reggio Emilia, 15 Dicembre 2013

mercoledì 13 novembre 2013

La montagna e il topolino

La montagna e il topolino

Sullo  sciopero CGIL-CISL-UIL del  14 novembre

Semplice liquidare l'indizione di quattro ore di sciopero, in una
situazione come quella attuale,  con poche righe di commento comprensivo
della dovuta dose di ironia e di roboanti accuse al perpetuarsi del
tradimento sindacale e in particolare di marca CGIL.
Semplice e  corretto da un punto di vista di analisi ma servirebbe a ben
poco e non sposterebbe alcunchè.
  Lo sciopero ben inteso non serve a nulla, è sbagliato nei tempi, nella
sua organizzazione ma soprattutto nei suoi contenuti,  non è inserito in
un qualsivoglia progetto sindacale e quindi non avrà alcuna continuità
logica come, data la situazione, qualsiasi azione sindacale a maggior
ragione se di carattere generale
dovrebbe avere. Per di più,  con la scusa di rincorrere,  o nascondersi 
dietro, una parvenza di unità sindacale ormai inesistente non solo pare
riguardare solo la legge di stabilità  a fronte del dramma che vive un
numero sempre maggiore di proletari, ma azzoppa di fatto (basta pensare
alla mancata estensione all'intero turno per i dipendenti pubblici) 
qualunque reale possibilità di partecipazione non solo simbolica di
delegati e funzionari.
Uno sciopero  simbolico, quindi, nella più generosa delle
interpretazioni, contro una   legge di stabilità che come al solito
insiste nel taglieggiare i soliti noti, i lavoratori dipendenti, nella
speranza  che  l'unico interlocutore di riferimento, il parlamento , si
impietosisca  e ascolti i sindacati. La stessa squallida logica che ha
portato alla capitolazione nel capitolo precedente, dove abbiamo perso
senza battere ciglio le battaglie e sulle  pensioni, sul mercato del
lavoro, art.18.
Eppure sappiamo che nonostante il disagio  dei lavoratori e dei delegati
  a questo sciopero e alle manifestazioni, parteciperanno decine di
migliaia di lavoratori e pensionati, disposti ad accontentarsi almeno di
questo, con cui avere a che fare per sostenere e costruire  iniziative
che partano dai territori e si estendano a livello generale, che abbiano
come punti immediati il blocco dei licenziamenti, il finanziamento degli
ammortizzatori sociali estendendoli a tutti i lavoratori in difficoltà,
la battaglia contro la precarietà, la
riduzione del prelievo fiscale a carico dei lavoratori, i diritti
fondamentali (casa, salute, trasporti), i punti essenziali per impostare
immediatamente una battaglia condivisa e credibile.

 Commissione Sindacale FdCA - 12/12/2013

lunedì 14 ottobre 2013

These machines kill repression!

These machines kill repression! Serata a sostegno dei/delle compagn* condannate di "devastazione e saccheggio" per le giornate del G8 di Genova2001.
locandina 25 ottobre
Venerdì 25 ottobre 2013 dalle ore 20.00
Il 13 luglio 2012 dieci persone sono state giudicate colpevoli di devastazione e saccheggio durante le giornate del vertice g8 di Genova nel 2001. Per cinque di loro è arrivata subito la pena da scontare, mentre il rinvio in Appello per i reati attenuanti (la condanna per devastazione e saccheggio rimane) porterà le altre cinque nuovamente in tribunale il prossimo 13 Novembre.
Marina e Alberto sono ormai in carcere da più di un anno; Ines, mamma di una bambina piccola, è agli arresti domiciliari; Francesco (“Gimmy”), introvabile per alcuni, è stato inghiottito anche lui dalle patrie galere, mentre solo Vincenzo è libero, per quanto libero possa essere libero chi è costretto a vivere nella latitanza.
Molte e molti di noi erano a Genova per poter diffondere il dissenso verso un mondo guidato dai potenti in cui nessun@ di noi si riconosce.
Ricordiamo la repressione di quei giorni e cerchiamo di raccontare, ma ricordare non ci basta. E' nostra responsabilità occuparci dei nostri compagni e della nostra compagna, capri espiatori di quelle giornate in cui ben 300.000 persone si riversarono per strada. Vogliamo farlo con il sostegno politico, emotivo e, non in ultimo, economico.

Info su processi e solidarietà qui: www.supportolegale.org || www.10x100.it

Dalle ore 20.00 ingresso cena vegan a buffet + concerto 8€:
Cena vegan a cura della Cucina Popolare Vegan.

Dalle 22.00 concerto a sottoscrizione libera con:
HELLSPITE (Roma Blues)
https://soundcloud.com/hellspite
https://www.facebook.com/hellspiterm
Dopo l'esperienza punk hardcore con i Think About, Emiliano forma un progetto "one man band" per poter esprimere tutto quello che con il gruppo non era riuscito a fare. Accompagnato talvolta da altri musicisti, Hellspite vi trascina in territori blues che confinano con il country e le ballate. Da vedere assolutamente!
REVEREND KNOPF (Roma Country Blues)
https://soundcloud.com/giovanni-bottone
Dopo una vita passata nel metallo della morte, stanco degli strilli e dei ritmi della vita moderna, cerca di inventare la macchina del tempo. Fallendo miseramente, decide di darsi alla musica d'altri tempi.

Prima e dopo il concerto dj set con:
TUTTIFRUTTI APOCALYPSE - Lubna Barracuda & Murder Farts Djs! (R'n'r Roma)
La Tuttifrutti Apocalypse nasce nel maggio 2012, anno designato dai Maya per la fine del mondo, con l'intento di chiarire una volta per tutte il concetto di rock'n'roll, far sanguinare un po' d'orecchie e combattere il malcostume musicale dilagante...alla fine l'Apocalisse non c'è stata, ma la Tuttifrutti Apocalypse è ancora qui, punk rock, garage, psych, rock'n'roll e molto altro nelle micidiali selezioni di Murder Farts e Lubna Barracuda....SEX, LOVE AND R'N'R!

mercoledì 9 ottobre 2013

Ottobre, si sta come tre foglie sugli alberi?

Ottobre, si sta come tre foglie sugli alberi?

Abbiamo passato mesi di soporifera assuefazione agli psicodrammi di una politica istituzionale sempre più avvitata sull'autoconservazione. Una politica paga della riuscita trasformazione autoritaria impressa dalle politiche neoliberali della oligarchia finanziaria. Una elite che ormai comanda ed impera in tutto il mondo, totalmente sorda alle necessità e alle urgenze di una crisi causata dall'esproprio delle ricchezze a danni delle forze più deboli della società. Ma ora  le realtà di lotta e di opposizione ricominciano a muovere qualche passo.
Importanti passaggi nel deserto prodotto del governo unico, orfani di ogni dove che tentano di rinsaldare le fila di una aggrovigliata e complicata situazione.
Da quella che sarebbe stata chiamata in passato la frangia riformista -e che ora è costretta a lottare per conservare qualcosa- si muove un tentativo estremo di ripartire dalla difesa di una Costituzione ormai violentata in tutte le sue parti.  Un tentativo -quello della manifestazione del 12 ottobre a Roma- che vorrebbe perlopiù permettere una ridislocazione intelligente a quanti nella cosiddetta sinistra radicale sono entrati in una fase di convulsione che li ha portati a perdere il senso stesso dell’azione politica. Non certo per rimettere al centro dell’agenda politica la possibilità di contrattare condizioni di difesa di qualsivoglia diritto.

In contemporanea, (ampi) settori di movimento rilanciano una settimana di mobilitazione che parte sempre dal 12 ottobre con una giornata di lotta a difesa dei territori, contro le privatizzazione dei servizi pubblici e la distruzione dei beni comuni e azioni diffuse per il diritto all'abitare, per  terminare in piazza il 19 ottobre, inglobando lo sciopero/manifestazione dei sindacati di base e conflittuali del 18 ottobre, e lanciando mobilitazioni locali il 15 ottobre.

Ma il sindacalismo di base sembra non riuscire ad andare oltre la ritualità dello sciopero generale, pur unendo vecchie e nuove sigle che ancora non trovano uno spazio politico condiviso per battaglie condivise. Anch'esso si dimostra incapace di essere l’alternativa credibile alla difesa degli interessi di classe. E si trova in parte suo malgrado inserito in un percorso plurale che potrebbe essere una bella risposta in attesa della nuova legge sulla stabilità, pronta a tagliare e dismettere quanto di pubblico e di collettivo rimane in questo paese. Siano servizi, posti di lavoro o beni demaniali, tutto è sacrificabile per garantire il rispetto del 3% di indebitamento netto nel 2013.

Nessuna difesa di classe sembra più consentita. Il liberismo dello stato minimo e dei massimi profitti per le imprese private sembra privo di alternativa. Eppure i diversi soggetti che abitano la crisi, rivendicano a sé, a noi, la capacità -comunque declinata, riconosciuta, vissuta- di non non far parte di questo disegno autoritario. Soggetti diversi che rivendicano l'indisponibilità ad essere sacrificati alla  ristrutturazione del capitale. Che rivendicano la possibilità di costruire dal basso soluzioni umane alla rapina capitalistica.

Questa eterogenea assemblea richiama quanti - precar*, lavoratori e lavoratrici, giovani, pensionat*, disoccupat*- richiedono reddito e casa, rivendicano difesa dei territori e possibilità di vita per tutti, nell'esigenza di conquistare spazi ed agibilità politica, per altro affermata in contesti territoriali dove la mediazione politica, quella dei partiti, è completamente saltata.

Una cosa però è chiara a tutti: se è vero che nulla sarà più come prima, che non si tornerà alla vita "pre crisi" e che l’espulsione in massa di forza lavoro e la chiusura di centinaia di fabbriche hanno modificato tanto la composizione ed ancor più la coscienza di classe, è altrettanto vero che il simulacro della democrazia parlamentare mostra la corda proprio di fronte alla necessità del capitale di costituzionalizzare l’avvenuta svolta autoritaria.

La de-integrazione sociale non è più una variante sociologica degli effetti della crisi. E' e si manifesta attraverso l’esclusione politica e sociale dei ceti subalterni, che in primis subiscono la perdita di salario e di tutele economiche. L’accumulazione per esproprio e l’ideologia dominante della borghesia neoliberale hanno messo in conto i costi che i lavoratori stanno pagando nella ristrutturazione del capitale.

Sappiamo tutti della stretta repressiva già in atto da tempo, con cui si cerca di legittimare l'esclusione politica alla quale tutti siamo sottoposti; sappiamo che la tendenza è come sempre a criminalizzare le lotte e la partecipazione, e come sempre si accenderanno riflettori di una regia complice, per spegnerli poi a piacere e dosarne i fotogrammi nella più classica della disinformazione di regime. Non è un buon motivo per non esserci, non è mai un buon motivo.
Sta a tutte e tutti noi, che non chiediamo nulla al potere politico ed autoritario che governa l’Europa, noi che rifiutiamo ogni approccio nazionalistico all'uscita dalla crisi con ricette che ci porterebbero agli anni '30,  essere consapevoli che è nei territori che si deve continuare ad alimentare le lotte. Costruendo l'alternativa a questo sistema -dal basso-   rafforzando  e collegando organismi di base capaci di esprimere vertenzialità e conflittualità  a partire dai bisogni immediati e dalla solidarietà reciproca; progettando forme e modi del potere popolare a partire dalle sacche di resistenza e di progettualità che esistono e resistono, creando forme di contropotere costituendo organismi orizzontali e sviluppando prassi libertaria,  patrimonio sempre più largamente condiviso  tra chi ancora lotta e prefigura la trasformazione sociale, tra chi non intende rinunciare ai diritti, alla dignità, alla pace e all'eguaglianza sociale.

SN-FdCA, ottobre  2013

domenica 6 ottobre 2013

In mezzo al mar …


In mezzo al mar …

E’ lungo l’elenco delle stragi di bambini, donne e uomini che sono annegati nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere la “Fortezza Europa”.

C’è chi non ce l’ha fatta, a metà del mese di luglio, nel tentativo di raggiungere la  spiaggia vicino Catania, chi alcuni giorni fa quelle di Scicli, vicino Ragusa, molti in questi giorni in mare aperto o a pochi metri dalla riva nel tentativo di raggiungere la costa di Lampedusa.

Nel solo 2011 almeno 1500 esseri umani sono annegati nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere la “Fortezza” (rapporto Amnesty giugno 2012) e nel periodo 1988-2011 ne sono morti in media 4-6 al giorno.

Insieme ai CIE e ai lager dai nomi esotici del resto d’Italia (come il  CARA di Mineo dove in questi giorni 200 somali hanno duramente protestato) queste morti sono la punta di diamante del “respingimento” e della “tolleranza zero”.

E’ il razzismo che rende insicuri, che divide i nostri cuori e che arricchisce i padroni.
Lavorare in regola, essere curati, poter mandare i figli a scuola, circolare liberi per il mondo: è questo che ci rende più sicuri. 

NESSUN ESSERE UMANO E' ILLEGALE

Contro ogni razzismo - Solidarietà  e Libertà.  Per la libera circolazione  degli esseri umani e non solo delle merci, per la garanzia immediata dell’asilo politico a chi fugge dalle guerre e dalla fame e per l’abolizione della Turco Napolitano e della Bossi Fini.

 

● Federazione Anarchica Italiana:

- Gruppo “M.Bakunin” JESI

- Gruppo “F. Ferrer” CHIARAVALLE

● Alternativa Libertaria\FdCA sez. FANO\PESARO

● Anarchiche e Anarchici VALCESANO

● Gruppo Anarchico “Kronstadt” ANCONA

domenica 22 settembre 2013

Commissione sindacale FdCA

ILVA : LA NAZIONALIZZAZIONE COME SOLUZIONE?


Di fronte all'evolversi della tragedia ILVA, da più parti si invoca la nazionalizzazione come risposta alla strafottenza e all'arroganza della famiglia RIVA, una risposta radicale e di classe che tramite esproprio salverebbe capre e cavoli, letteralmente produzione e ambiente. Come quando a suo tempo si parlava di nazionalizzazione delle banche. Peccato che non sia così.
Chi invoca lo Stato a garante della collettiità fa finta di non vedere che sulla questione ILVA (e non solo su questa) il ruolo dello Stato come garante è già stato esercitato in pieno, sia durante la passata nazionalizzazione in passato, dove sono state gettate le basi per il disastro di oggi, sia nei processi di inquinamento che nei ladrocini e in tutte le schifezze che conosciamo, sia nella fase di proprietà di RiVA, a maggior ragione oggi. E da che parte è schierato lo Stato lo sappiamo ben, lo Stato ha sempre continuato a svolgere il suo ruolo fondamentale di garante della finanza mondiale e dei suoi “contratti”e di custode della proprietà del capitale con quel che ne consegue, abbandonando da tempo ogni finzione di terzietà e di forme di inclusione dei lavoratori.
Ma la questione è più generale e vale la pena approfondirla.
Chi conosce la storia del movimento operaio che sulle collettivizzazioni si è innestato lo scontro tra l’organizzazione politica (partito) e organizzazione di resistenza (sindacato), sopratutto nei momenti più alti dello scontro di classe (salvo scomparire del tutto nelle società post- rivoluzionarie dove il sindacato esiste solo formalmente , il partito si fa stato e le istanze dei lavoratori scompaiono).
Ma anche allora la scelta si è sempre posta tra controllo dei lavoratori sui processi di produzione, quindi sul modo di produzione capitalista sino ad attuarne una sua radicale trasformazione, oppure la statalizzazione che in nome degli stessi controlla le fabbriche e più in generale i luoghi di lavoro.
Da un lato il protagonismo dei lavoratori dall’altro lo Stato per il quale i lavoratori sono soggetti da “educare”ben che vada.
Quando nel 1910 in Inghilterra il partito laburista (unico esempio della storia di partito politico direttamente creato dal sindacato, e che rimane di fatto nelle mani del sindacato) propone la nazionalizzazione delle miniere di carbone i minatori del Galles del sud e la UNION che li organizza rispondono con uno sciopero durissimo, dove i lavoratori rispondono politicamente mettendo in circolazione un opuscolo contro la nazionalizzazione e le posizioni di politica sindacali definite ortodosse:
lo stato è un nemico quanto i padroni i lavoratori devono essere in grado di assumere il controllo della loro industria e di dirigerla con un sistema completo di controllo operaio”.
Ora la situazione è ben diversa, decenni di manovre per estromettere i lavoratori da tutti i processi decisionali, bloccandone qualsiasi intervento diretto, utilizzando tutto, compresa la divisione e l’impotenza delle organizzazioni di rappresentanza sindacale , i ricatti, approfondendo all'esasperazione la contraddizione fra ambiente e lavoro che si è determinata, spingendo i lavoratori del nord colpiti dalla serrata contro quelli del sud, mentre pezzi dello Stato si danno battaglia sopra di loro.
Ma l'unico modo che hanno i lavoratori per uscire da tutto questo non può che passare per la ripresa di protagonismo da parte dei lavoratori: nessuna richiesta di tutela a uno Stato complice del disastro, nessuno sconto e nessuna sudditanza a Riva e ai suoi sgherri nelle fabbriche, ma occupare i 7 stabilimenti chiusi, autorganizzandosi per riprendere le produzioni, denunciando al contempo le insufficienze e le colpevoli omissioni sulla sicurezza ambientale e sul lavoro, costruire e “muovere”da una posizione di forza e di unità dei lavoratori, dal Piemente alla Puglia.
E, intorno, chiedere e ottenere una rete di solidarietà attiva di protezione e di condivisione nei territori, da parte di tutti quei soggetti impegnati da tempo nel costruire forme di costruzione di alternativa economica e sociale. Solidarietà che non mancherà e non può mancare.
CS FdCA, 22 settembre 2013

lunedì 16 settembre 2013

16 settembre 1982: Sabra e Chatila


na tav

L'OMBRA DEI SERVIZI SEGRETI SULLA VALSUSA

Nello scenario di altissima tensione che in Val di Susa continua a contrapporre le ragioni dei No-Tav a quelle del governo, l’allarme dei servizi segreti sul rischio di una deriva terroristica della protesta suona come un sinistro presagio. Qualcosa potrebbe accadere, ma gli oltre vent’anni di barricate nella Valle hanno insegnato che a «preparare qualcosa» potrebbero essere degli elementi estranei al movimento No-Tav. Frange “deviate” dell’intelligence, votate alla provocazione al fine di colpevolizzare i gruppi di opposizione alla grande opera, la cui presenza in Val di Susa non è una novità. Parliamo di fatti mai chiariti del tutto, risalenti alla seconda parte degli anni ’90: quindici attentati e sei pacchi bomba rimasti senza un colpevole.
Diciamolo subito, trovare un filo per queste vicende non è semplice. Sono troppi i misteri di una piccola valle, tra le più belle del Piemonte, messa suo malgrado al centro di interessi politico-affaristici grandissimi che spingono per la realizzazione di un’infrastruttura faraonica, di discutibile utilità e con un forte impatto ambientale.

Le prime bombe -
Inevitabilmente il clima di scontro, forse esasperato dalla prospettiva degli espropri necessari alla posa dei binari della Torino-Lione (si parla di diverse centinaia di edifici interessati), ha portato già nella seconda metà degli anni '90 all'utilizzo da parte di qualcuno di metodi di opposizione poco ortodossi: un macchinario edile incendiato, una cabina elettrica danneggiata. Gesti isolati ai quali però sono andate sommandosi ben presto altre azioni compiute con modalità più professionali e rivendicate da strani gruppi di eco-terroristi. Sigle sconosciute che sono apparse e scomparse nel giro di pochi mesi senza lasciare traccia, con modalità che potrebbero sembrare studiate a tavolino.
La prima molotov scoppia nella notte del 23 agosto 1996 nei pressi di Bussoleno contro una trivella nel cantiere della società Consonda. Nei due anni seguenti si susseguono altre quattordici esplosioni contro vari obiettivi tra cui il portone di una chiesa, un ripetitore televisivo e un cavo a fibre ottiche della Telecom. Otto attentati vengono rivendicati dalla sigla “Valsusa Libera” mentre altri ancora dai “Lupi Grigi”. Quest'ultimo è un nome un po' strano per un gruppo che i magistrati pensano appartenere alla galassia dell'estrema sinistra, perché è lo stesso utilizzato dai terroristi della destra turca. Ma c'è un'altra stranezza. La paternità degli atti terroristici compiuti da “Valsusa Libera” e dai “Lupi Grigi” arriva quasi sempre con testi caratterizzati da un'ideologia confusa, con riferimenti a figure apparentemente distanti, dal bandito Cavallero ai partigiani Maffiodo e Trattenero. È proprio allora che, secondo il Corriere della Sera del 6 novembre 2005, gli inquirenti si fanno per la prima volta domande «su un eventuale coinvolgimento dei servizi segreti». L’accusa viene respinta direttamente dai sedicenti eco-terroristi, gli stessi che in un profetico volantino si diranno certi che «alla fine i servizi immoleranno alla stampa qualche ragazzotto di campagna». Vere o deliranti che possano apparire queste ipotesi complottiste, è bene ricordare che qualcosa di simile succede davvero.

Sole, Baleno e Silvano -
Nel corso delle indagini per individuare gli esecutori degli attentati, la Procura di Torino sostiene la tesi secondo cui tutti gli atti eversivi sono riconducibili ad un unico disegno criminoso. Seguendo ciecamente questa pista nel marzo 1998 si arriva al fermo dei presunti responsabili. Sono tre anarchici, occupanti abusivi dell'ex obitorio di Collegno: Silvano Pellissero, Edoardo Massari e la sua compagna argentina, Maria Soledad Rosas. “Blitz contro gli eco-terroristi”, titola La Stampa all'indomani degli arresti, dipingendo i fermati come “squatter con la passione delle armi”. Interrogati in questura i tre si dichiarano fin da subito estranei ai fatti.
Massari, detto Baleno, è un personaggio noto alle forze dell’ordine per la sua militanza antagonista. Probabilmente in questa vicenda ci finisce per caso e dopo l'arresto non regge all'incubo di dover scontare quindici anni di galera da innocente. Secondo la versione ufficiale, si suicida in una cella del carcere delle Vallette il 28 marzo 1998. Baleno è la prima vittima nella lotta alla realizzazione della Tav, ma non l'unica. Appena tre mesi dopo anche la sua compagna, Maria Soledad Rosas, detta Sole, si toglie a sua volta la vita in una comunità di Bene Vagienna. In carcere rimane, con l’accusa di associazione sovversiva, solo Silvano Pellissero, quarantenne di Bussoleno. La Procura gli contesta la devastazione e il successivo incendio del municipio di Caprie avvenuta il 15 gennaio 1998, un episodio che i PM Laudi e Tatangelo ritengono provante del collegamento esistente tra gli anarchici e i “Lupi Grigi”. Pellissero è un colpevole perfetto, dal momento che tra i suoi precedenti spicca un arresto per possesso di armi ed esplosivi. Una vecchia storia la cui importanza per provare l'interesse dei servizi segreti alla Val di Susa è però tutt’altro che trascurabile.

“Il pollo alla dinamite” -
Sono le 19.00 di mercoledì 24 marzo 1981. In una borgata di Bussoleno un’improvvisa esplosione fa saltare in aria un pollaio di proprietà della famiglia Pellissero. Quando i vigili del fuoco intervengono per spegnere il rogo si trovano inaspettatamente di fronte a un campionario di dinamite, tritolo, fucili da guerra e bombe a mano.“Il pollo alla dinamite”, titola sarcasticamente Luna Nuova. La scoperta di armi da guerra nella Valle lascia spazio a tante ipotesi campate in aria, non ultima quella di una cellula terroristica.
All'epoca Silvano Pellissero ha solo vent'anni e vive lontano da casa perché sta svolgendo il servizio militare. Le armi appartengono a suo padre, indomito partigiano che si era sempre rifiutato di consegnare il suo piccolo arsenale. Lo teneva lì, nel pollaio, come cimeli del tempo che fu. Nel processo viene dimostrato come quella artiglieria fosse ridotta ad un cumulo di ferraglia, in buona parte inutilizzabile, ma ciò non sottrae i soli due uomini della famiglia, Silvano e suo padre, a una condanna a due anni con la condizionale. Ad arrestarli è il maresciallo dei carabinieri Germano Tessari, soprannominato Tex, già uomo di fiducia del generale Dalla Chiesa. Per una casualità, quasi vent'anni dopo lo stesso maresciallo sarà anche collaboratore del magistrato che indagherà sugli attentati attribuiti ai “Lupi Grigi”.

Armi, 007 e misteri -
Le cronache si interessano al maresciallo Tessari nei primi anni '90 quando viene coinvolto nello strano caso della Brown Bess, un'armeria di Susa dalla quale spariscono 397 pistole. Un traffico di armi che sarebbe stato organizzato direttamente da uomini appartenenti agli apparati di sicurezza. Ad affermarlo sono gli stessi armaioli. «Secondo la difesa», si legge su La Valsusa del 15 gennaio 1998, «i gestori dell'armeria erano convinti di rendere un servizio allo Stato collaborando con i servizi segreti».
L'inchiesta si trasforma ben presto in «un vespaio», nel quale si verificano intimidazioni ai magistrati, ai testimoni, ai giornalisti e a chiunque si occupi del caso. Minacce che, secondo quanto un inquirente dichiara a La Stampa, «non si sono limitate alle parole».
Sul banco degli imputati finisce anche un agente dei servizi segreti, tale Franco Fuschi. Nel 1999, dopo aver confessato ben 11 omicidi (alcuni dei quali per conto del SISDE), nonché la sua responsabilità in alcuni falsi attentati attribuiti ai sedicenti “Lupi Grigi”, Fuschi viene condannato all'ergastolo. Le accuse contro Tessari vengono invece archiviate dal tribunale, mentre le reali responsabilità dei servizi segreti rimangono un nodo irrisolto.
L'inquietante intreccio di bombe, 007 e misteri irrisolti rappresenta il quadro d'insieme nel quale nel 1998 vengono condotte le indagini sugli eco-terroristi che porteranno all'arresto dei tre anarchici. Un provvedimento evidentemente troppo frettoloso visto che nel 2001 la Corte di Cassazione di Roma invaliderà l'accusa di attività terroristica con finalità eversive per l'unico sopravvissuto, Silvano Pellissero.
Di Soledad-Sole e Edoardo-Baleno rimane invece soltanto il rispettoso ricordo. Alla loro storia e a quella di Pellissero è dedicato “Le scarpe dei suicidi”, bel libro scritto da Tobia Imperato che rappresenta una accurata e preziosa cronaca dei fatti. Oggi, nell'ora più delicata per le sorti dello scontro in atto in Val di Susa, sarebbe bene che i magistrati della Procura di Torino si ricordassero di loro. E magari anche di quella frase sibillina, scritta da qualcuno molti anni fa: «Alla fine i servizi immoleranno alla stampa qualche ragazzotto di campagna».
Massimiliano Ferraro

giovedì 22 agosto 2013

Sacco e Vanzetti







 Si papà, sono in galera
Non aver paura e divulga il mio Crimine
Il Crimine di amare chi è dimenticato
Solo chi resta zitto deve vergognarsi

Ti dico subito che c'è contro di noi:
c'è un'arte antica, viva da secoli
vai indietro negli anni e vedrai
Come ha sporcato di nero la Storia

Contro di Noi c'è La Legge
Con una Forza immensa e un Potere sconfinato
Contro di Noi c'è la Legge!
La Polizia sa come farti diventare Colpevole o innocente
Contro di Noi c'è il Potere della Polizia!

Menzogne dette senza vergogna sono state comprate coi soldi
Contro di noi c'è il potere dei soldi!
Contro di noi c'è l'odio razziale
e il semplice fatto che siamo poveri

Caro papà, sono in galera
non aver vergogna e parla del mio crimine
Il crimine dell'amore e della fratellanza
Solo chi resta zitto deve vergognarsi

Dalla mia parte ho l'amore, l'innocenza, i lavoratori e i poveri
Perciò sono tranquillo, forte e pieno di speranze
Ribellione e rivoluzione non hanno bisogno dei dollari
ma hanno bisogno di immaginazione, sofferenza, luce e amore
e considerazione per ogni essere umano.

Non rubare mai! Non uccidere mai!
Sei un anello di una catena fatta di forza e di vita
La rivoluzione avanza da un uomo all'altro e da un cuore all'altro
E quando guardo le stelle sento che siamo figli della Vita.
La morte è poca cosa.

giovedì 8 agosto 2013

atomica




Hiroshima, 68 anni fa: per non dimenticare

In queste giornate afose rischiano di cadere in silenzio due date che rievocano un’immane tragedia per l’umanità. Mi riferisco al 6 e al 9 agosto 1945, quando gli americani sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Solo nei mesi immediatamente successivi alla deflagrazione i morti furono oltre 200 mila. Secondo stime attendibili, fino ad oggi le vittime accertate sarebbero oltre 350 mila, in seguito soprattutto alle affezioni tumorali provocate dalle micidiali radiazioni termonucleari.

Quelle dell’agosto 1945 sono state le uniche volte in cui furono impiegate armi nucleari in un conflitto bellico contro popolazioni civili, sterminando intere generazioni e annichilendo intere città. Bisogna ricordare che la paternità storica di tali crimini contro l’umanità, rimasti tuttavia impuniti, va ascritta agli Stati Uniti d’America, che non hanno esitato un momento ad usare armi di distruzione di massa per vincere la guerra.

In particolare occorre riflettere sulla seconda bomba, sganciata su Nagasaki. Secondo vari storici si è trattato di un atto terroristico evitabile, eppure è stato ugualmente eseguito per due ragioni fondamentali. La prima, più che altro un alibi tecnico-scientifico, era che la bomba su Nagasaki, essendo composta di plutonio e non di uranio arricchito come quella su Hiroshima, aveva bisogno di essere sperimentata, ma un simile ragionamento è semplicemente cinico. Il secondo motivo era di ordine strategico, in quanto la seconda bomba era inutile per vincere la guerra contro il Giappone, un paese già stremato, ridotto alla mercé dei vincitori, per cui apparve subito evidente il vero scopo della seconda esplosione, vale a dire un atto scellerato in funzione antisovietica.

In tal senso le bombe lanciate su Hiroshima e Nagasaki, le ultime della seconda guerra mondiale, furono anche le prime della “guerra fredda”. Insomma, fu un chiaro segnale intimidatorio teso a far capire ai sovietici ed al mondo intero chi erano i nuovi padroni.

Negli anni successivi al 1945 le armi atomiche furono adottate dalle principali potenze: l’URSS la ottenne nel 1949 grazie alla decisione di alcuni scienziati che avevano concorso alla creazione della bomba H per il governo nordamericano, per ristabilire un equilibrio tra le parti avverse, la Gran Bretagna nel 1952, la Francia nel 1960, la Cina nel 1964.

In questo periodo, segnato da una prima proliferazione degli arsenali atomici, sorse un clima di “guerra fredda” nel quale i due blocchi politico-militari (la NATO, ancora esistente e il Patto di Varsavia, che ruotava attorno all’Unione Sovietica) erano coscienti di annientarsi vicendevolmente con il solo impiego delle armi atomiche. Era la teoria della “distruzione mutua assicurata” alla base del cosiddetto “equilibrio del terrore”, la strategia della deterrenza che, in qualche occasione, ha scongiurato il rischio catastrofico di un conflitto termonucleare totale. Tale “equilibrio”, ancorché fosse un utile deterrente sul piano strategico, tuttavia non impedì un’enorme proliferazione degli arsenali atomici sia ad Ovest che ad Est. Al contrario, le armi nucleari divennero più numerose, ma soprattutto più sofisticate, quindi più potenti, al punto che confrontate con quelle successive le bombe gettate su Hiroshima e Nagasaki parevano “giocattoli”.

Gli arsenali atomici a disposizione dei due blocchi (Est ed Ovest: nemici sulla carta, ma in realtà complici rispetto alla spartizione economica, politica e militare del globo) erano potenzialmente in grado di disintegrare il pianeta, non una, ma decine di volte.

Nel corso degli anni ‘80 il dialogo tra Reagan e Gorbaciov condusse alla stipulazione dei trattati START I e START II che sancivano una graduale riduzione degli armamenti atomici posseduti dalle due superpotenze. In quegli anni, esattamente nel 1985, uscì un film intitolato “War games” (tradotto in italiano “Giochi di guerra”) che narra la storia di un ragazzo di Seattle che, giocando col computer, riesce ad inserirsi nella rete informatica della difesa nucleare statunitense provocando, nella finzione cinematografica, il rischio di un conflitto termonucleare, poi scongiurato. Cito il film per evidenziare come in quegli anni la percezione dei pericoli di un conflitto atomico che avrebbe potuto causare l’autodistruzione del genere umano, era maggiore di oggi.

Eppure, la situazione odierna è ben più pericolosa di quella descritta relativamente al periodo della “guerra fredda”. Attualmente, gli Stati che dichiarano di possedere armi nucleari e fanno ufficialmente parte del cosiddetto “Club dell’atomo” sono esattamente otto: Stati Uniti d’America, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan e Israele.

Inoltre la possibilità, non solo teorica, che alcune armi atomiche come le cosiddette “bombe sporche” (che non costano come le armi atomiche e non esigono particolari competenze scientifiche, se non quelle, ormai diffuse, che servono a costruire una bomba tradizionale) possano cadere nelle mani di gruppi terroristici al soldo dei servizi segreti delle varie potenze (USA ed Israele sono in cima alla lista per la loro spregiudicatezza) può fornire una vaga idea della elevata pericolosità dell’odierna situazione internazionale, segnata da tensioni aggravate dalla politica della “guerra globale preventiva” che di fatto alimenta le spinte oltranziste in ogni angolo del mondo.

L’odierna situazione planetaria è dunque più insidiosa del passato, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino del 1989 e il disfacimento dell’Unione Sovietica, ma soprattutto dopo l’11 settembre 2001, quando sono state rilanciate la ricerca e la produzione di nuove generazioni di bombe nucleari, molto più piccole e facili da utilizzare. Nonostante ciò, la consapevolezza del pericolo rappresentato dagli arsenali atomici da parte dell’opinione pubblica mondiale, è ad un livello più basso rispetto agli anni della “guerra fredda”, un periodo in cui l’equilibrio tra le superpotenze esercitava un effetto deterrente. Oggi quell’equilibrio non esiste più ed è rimasto solo il “terrore”.

Anzi, la situazione odierna è profondamente instabile e gli USA non sono in grado di gestirla da soli attraverso un ruolo di gendarmeria planetaria che si sono auto-attribuiti con la consueta arroganza che li ha condotti in uno stato di isolamento. Oggi assistiamo ad un insidioso rilancio della ricerca nucleare per fini militari, che vede un coinvolgimento crescente anche dell’Italia. Si pensi che all’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) e nella base americana di Aviano sono già pronte almeno 90 testate nucleari.

Per capire l’estrema pericolosità derivante dall’odierno scenario internazionale, ricordo un episodio del 2002, quando India e Pakistan (che già nel 1998 avevano condotto alcuni test nucleari) si trovarono sull’orlo di un conflitto per il controllo del Kashmir, un territorio al confine tra i due Stati, famoso per un tessuto morbido e leggero di lana omonima ricavata da una particolare razza di capre che vive solo in quella regione. Si trattò di una pericolosa contesa politica che avrebbe potuto degenerare apertamente e facilmente in uno scontro bellico, con un eventuale ricorso ad armamenti termonucleari.

Oggi esistono alcune micro potenze regionali, quali la stessa Israele, che detengono arsenali atomici micidiali e assumono atteggiamenti ostili e belligeranti verso gli Stati confinanti. E nessuno osa denunciare la situazione. Anzi, chi si azzarda è tacciato di “antisemitismo”. Naturalmente sarebbe ipocrita non riconoscere che la più grave minaccia proviene da quelle superpotenze mondiali come Usa, Cina e Russia che mirano ad una nuova spartizione geopolitica ed economica del mondo ed agiscono in modo espansionistico sul terreno commerciale, entrando spesso in contrasto tra loro. Si pensi alla competizione tra Usa, Cina ed Europa o alla guerra monetaria tra l’euro e il dollaro.

Certo, dal ‘45 ad oggi le guerre finora combattute e quelle in corso non hanno mai registrato il ricorso ad armi atomiche, ma solo a quelle convenzionali. Finora ho fornito una ricostruzione storica in materia di armi nucleari, provando ad evidenziare un confronto tra gli anni della “guerra fredda” e la realtà odierna che è assai più insidiosa, benché la coscienza della gente sia meno diffusa e profonda rispetto al passato. A tale proposito mi sembra utile citare un brano tratto da un articolo di Giorgio Bocca (apparso diversi anni fa nella rubrica “L’antitaliano”), nel quale l’anziano giornalista scriveva testualmente: “Già nel 1945 avremmo dovuto capire che l’apocalisse era ormai entrata nella normalità. Scoppia la prima atomica a Hiroshima e sui giornali dell’Occidente, anche sui nostri, la notizia venne data a una colonna in basso e non destò particolare emozione. Aveva ucciso in un colpo 100 mila persone e ne aveva avvelenate a morte altrettante. Non se ne sapeva molto, è vero, ma in breve si capì che era l’arma della distruzione totale, ma l’Occidente civile in sostanza non fece obiezione: la bomba segnava in pratica la fine della guerra, perché condannarla?”. In altri termini, il fine (ossia la conclusione della seconda guerra mondiale) ha giustificato il mezzo, ovvero il ricorso alla bomba H, vale a dire ad un terrificante strumento di distruzione di massa.

Oggi, più che in passato, la bieca logica machiavellica del “fine che giustifica i mezzi” non può e non deve essere tollerata, ma va respinta con fermezza ed in modo definitivo, pena l’annientamento dell’umanità e di quasi ogni forma di vita sul nostro pianeta.

Le cause delle guerre, siano esse convenzionali o meno, sono fondamentalmente le stesse: il possesso e il controllo della terra, dell’acqua, del petrolio o di altre preziose materie prime, lo sfruttamento dell’uomo e della natura, l’oppressione di un popolo da parte di un altro popolo, vale a dire di una classe sociale da parte di un’altra classe.

Queste sono le ragioni primarie che possono scatenare un conflitto bellico. Il fatto poi che alla guerra condotta con armi convenzionali si sostituisca la guerra “termonucleare”, non cambia e non toglie assolutamente nulla alle cause, al carattere e al significato di classe della guerra medesima. Tuttavia, è evidente che la differenza tra guerre tradizionali e guerra nucleare sta nel fatto che le armi atomiche sono strumenti di distruzione totale: un “dettaglio” non certo trascurabile, che non va sottovalutato.

Lucio Garofalo

martedì 16 luglio 2013

domenica 7 luglio 2013

Roma. Pacco bomba contro le case occupate

 

E' accaduto questa notte all'occupazione delle case di Caltagirone a Ponte di Nona. Gli artificeri disinnescano un ordigno rudimentale ma non tanto.

Da aprile nel quartiere periferico di Ponte di Nona (zona Prenestina) sono state occupate dai senza casa alcune palazzine costruite da Caltagirone. La zona non è quella delle case popolari ma quella delle case private. C'è stata qualche tensione all'inizio con i soliti "comitati per la sicurezza" che hanno cercato di aizzare la gente contro gli occupanti. Ma particolari problemi non ci sono mai stati, anche perchè l'occupazione è una di quelle dello Tsunami Tour che a dicembre ed aprile ha dato vita a numerosi occupazione di case organizzate e con precisi obiettivi e modalità di gestione della lotta. L'occupazione, in questo caso, è gestita dagli attivisti di Action.
Questa notte, mentre dentro l'occupazione si festeggiavano i tre mesi di occupazione, due occupanti hanno notato una Bmw bianca modello 95/2000 che rallentava e poi si fermava davanti all'entrata delle palazzine occupate. La macchina ripartiva ma sulla strada rimaneva uno zainetto. Uno degli occupanti si è avvicinato e ha notato un led luminoso. E' scattato l'allarme ed è stata chiamatala polizia con gli artificeri che hanno confermato come si trattasse di un ordigno con tanto di timer ma difettoso. La polizia ha affermato che si tratta di un "atto dimostrativo".
Ipotesi?
a) Nel quartiere c'è chi soffia sul fuoco con argomenti razzisti contro gli occupanti
b) La malavita locale non tollera dissonanze organizzate sul proprio territorio
c) le case occupate sono di Caltagirone, uno a cui da smepre piace il gioco duro

Solidarietà agli occupanti di Ponte di Nona è arrivate da diverse realtà sociali del territorio e metropolitane. Nessuna intimidazione verrà accettata. 

www.contropiano.org

domenica 30 giugno 2013

Da Taksim a Rio passando per Tahrir, la puzza dei lacrimogeni


Da Taksim e Tahrir, dalla Bulgaria al Brasile, noi combattiamo la stessa lotta contro l'oppressione degli Stati che proteggono una ristretta elite di ricchi.
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Lettera aperta degli attivisti egiziani del collettivo ‘Compagni dal Cairo’.

A tutti voi ed a coloro con cui lottiamo fianco a fianco,

la giornata del 30 giugno segna una nuova tappa per la nostra rivolta, per l'edificazione di ciò che abbiamo iniziato tra il 25 ed il 28 gennaio 2011. Questa volta ci ribelliamo contro il regime del Fratelli Musulmani che non ha fatto altro che perpetuare le stesse forme dello sfruttamento economico, della violenza delle polizia, della tortura e degli omicidi.

Parlare di imminente “democrazia” non ha nessun significato quando non vi è nessuna possibilità di vivere una vita dignitosa. Le pretese di legittimazione elettorale contrastano con la realtà di un Egitto in cui la nostra lotta prosegue perchè siamo di fronte al perpetuarsi di un regime oppressivo che ha cambiato volto ma mantiene le stesse logiche di repressione, austerity e brutalità da parte della polizia. Le autorità non hanno credibilità presso la popolazione, e le posizioni di potere si declinano in opportunità per vantaggi personali in termini di potere e di ricchezza.

Il 30 giugno si rinnova l'urlo rivoluzionario:“Il popolo vuole la caduta del sistema”. Noi perseguiamo un futuro che non sia governato nè dal greve autoritarismo e dal capitalismo amico dei Fratelli Musulmani nè da un apparato militare che mantiene una morsa sulla vita politica ed economica nè per un ritorno alle vecchie strutture dell'era di Mubarak. Sebbene le masse di manifestanti che scenderanno in piazza il 30 giugno non si ritrovino uniti su queste posizioni, deve essere nostro compito evitare che si ritorni ai periodi sanguinari del passato.

Sebbene le nostre reti siano ancora fragili noi traiamo speranza ed insegnamento dalle recenti rivolte sviluppatesi in Turchia ed in Brasile. Ognuna di queste esperienze nasce da realtà politiche ed economiche differenti, ma noi tutti siamo influenzati da circoli ristretti le cui richieste per il tutto subito hanno perpetuato una mancanza di prospettiva per quello che serve al popolo. Siamo stati influenzati dall'organizzazione orizzontale del Movimento per le Tariffe Libere a Bahìa in Brasile nel 2003 e dalle assemblee pubbliche che si sono diffuse in Turchia.

In Egitto, i Fratelli Musulmani mettono un impiallacciatura religiosa sui processi in corso, mente le logiche del neoliberismo egiziano si scontrano con  il  popolo. In Turchia, una strategia di crescita aggressiva del settore privato si manifesta parimenti in leggi autoritarie, nella stessa logica della brutalità della polizia quale strumento primario per reprimere ogni opposizione ed ogni tentativo di proporre delle alternative. In Brasile un governo nato da una legttimazione rivoluzionaria ha confermato che il suo passato non è che una maschera mentre si allea con lo stesso ordine capitalistico di sempre che sfrutta il popolo e la natura.
Queste ultime lotte unificano le  indomite battaglie dei Curdi e delle popolazioni indigene dell'America Latina. Per decenni, i governi della Turchia e del Brasile hanno cercato di spazzar via questi  movimenti di lotta. La loro resistenza alla repressione statale ha anticipato l'ondata di proteste che ora attraversa la Turchia ed il Brasile. Ne cogliamo l'urgenza nel riconoscere la profondità di ogni lotta e la ricerca di forme di ribellione da diffondere in nuovi spazi, nei quartieri e nel territorio.

Le nostre lotte hanno il potenziale per opporsi al regime globale degli Stati. In tempi di crisi come di benessere, lo Stato — che in Egitto sia sotto il potere di Mubarak, della Giunta Militare o dei Fratelli Musulmani - continua ad espropriare ed a concentrare allo scopo di preservare ed espandere la ricchezza ed i privilegi di coloro che hanno il potere.

Nessuno di noi lotta isolatamente. Dobbiamo affrontare nemici comuni in Bahrain, in Brasile ed in Bosnia, in Cile, in Palestina, in Siria, in Turchia, in Kurdistan, in Tunisia, in Sudan, nel Sahara Occidentale ed in Egitto. E la lista potrebbe allungarsi. Ovunque ci definiscono teppisti, vandali, sacchegggiatori e terroristi. Noi stiamo lottando per molto di più. Non solo contro lo sfruttamento economico, contro  la  nuda violenza poliziesca o contro un illegittimo sistema di regole. Non è per i diritti o per una nuova cittadinanza che  noi stiamo lottando.

Noi ci opponiamo allo stato-nazione quale strumento centrale di repressione, in cui ad una elite locale viene permesso di appropriarsi della vita di tutti noi e viene permesso ai poteri globali di mantenere il loro dominio sulla vita quotidiana di tutti noi. Questi lavorano  insieme con la repressione e con i media e con tutto quello che sta in mezzo. Noi non chiediamo di unificare o di parificare le nostre varie lotte, ma è la stessa struttura di potere che dobbiamo combattere, smantellare, ed abbattere. Insieme, la nostra lotta è più forte.

Vogliamo la caduta del Sistema.

Compagni dal Cairo

source ( http://roarmag.org/2013/06/from-tahrir-and-rio-to-taksi...ne%29 )
(traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali)

mercoledì 26 giugno 2013

 
 26 giugno giornata internazionale di solidarietà con la lotta degli operai della Vio.Me.
Il 26 Giugno OFFICINE ZERO risponde e rilancia l'appello internazionale alla solidarietà con la fabbrica occupata e autogestita VIO.ME di Salonicco. Per il mutualismo delle lotte, per diffondere in Europa l'autogestione della produzione, l'autorecupero e la riconversione delle fabbriche. Per il diritto a lavorare e a vivere senza padroni.
Appuntamento a Roma ore 17,00 via S. Mercandante 36 fuori l'ambasciata greca.

Giornata internazionale di solidarietà con la lotta degli operai della Vio.Me.
È la storia di una fabbrica abbandonata dai padroni, dimenticata dallo stato e dal governo e ignorata dalla burocrazia sindacale. È la storia di una fabbrica in cui, come in molti altri luoghi, i lavoratori sono diventati disoccupati nel contesto di questo disastro che i governanti chiamano ristrutturazione economica, ma che noi chiamiamo crisi e collasso capitalistico globale. È la storia della devastazione e del saccheggio, come molte altre storie intorno a noi.
Ma, soprattutto, è la storia di una parte della classe operaia che rifiuta di arrendersi. È la storia dell’autodeterminazione dei lavoratori e della democrazia diretta basata su un sindacato di base con coscienza di classe, di cui l’interesse collettivo e l’assemblea generale sono i principi costitutivi. È la storia dell’occupazione e auto-gestione della fabbrica Vio.Me. dove il bisogno di lavoro dignitoso e di esistenza cresce sopra ogni altra cosa. È la storia di una comunità di lotta dove i problemi quotidiani cercano soluzioni collettive. È una storia di creatività.
Per questo motivo la lotta dei lavoratori della Vio.Me. ha risvegliato la solidarietà di migliaia di persone, di lavoratori e di disoccupati in ogni angolo del mondo. Per questo, solo nell’ultimo anno, da Melbourne a Tokyo e da Washington a Berlino, sono stati organizzati dozzine di eventi in sostegno a questa lotta. Per queste stesse ragioni, sindacati, collettivi, spazi sociali e iniziative di tutte le città greche, piccole e grandi, dimostrano ogni giorno la loro solidarietà in ogni maniera possibile. Questo è anche il motivo per cui i governanti, lo stato e i padroni, hanno paura dei lavoratori della Vio.Me. e si oppongono in ogni modo alla loro lotta.
Oggi, quattro mesi dopo la riapertura della fabbrica Vio.Me. da parte degli stessi lavoratori in completa autogestione e sotto il controllo operaio, lo stato e il governo stanno ancora provando a mettere ostacoli e a impedire l'illimitata operatività della fabbrica. Da quattro mesi il governo sta provando a soffocare finanziariamente la lotta, negando finora ai lavoratori, senza stipendio già da due anni, il sussidio straordinario di disoccupazione che è stato concesso in molti altri casi. Ma i lavoratori e il loro sindacato non cederanno al ricatto economico. Ci appelliamo a ogni lavoratore che subisce l’attacco della classe dei padroni contro le nostre vite e i nostri mezzi di sussistenza, a ogni disoccupato che vede nell’autogestione dei mezzi di produzione una via d’uscita dalla miseria e dalla povertà, a ogni unione sindacale, collettivo e spazio sociale del movimento, di stare accanto alla lotta dei lavoratori della Vio.Me.
Mercoledì 26 giugno i lavoratori della Vio.Me. chiamano una giornata internazionale di solidarietà. Distribuiranno i prodotti realizzati sotto il controllo operaio in un evento centrale a Salonicco. E hanno bisogno che l’intera società li supporti, organizzando eventi di solidarietà in Grecia e all’estero.
Chiediamo l'illimitata operatività della fabbrica Vio.Me. in autogestione e sotto il pieno controllo operaio.
Chiediamo l’immediata legalizzazione di questa operatività.
La produzione nelle mani dei produttori e le fabbriche nelle mani dei lavoratori!
Dagli edifici occupati della televisione pubblica greca e dai lavoratori in sciopero in tutta la Grecia, alle eroiche rivolte dei nostri fratelli, i lavoratori e i disoccupati della Turchia, siamo parte di un movimento che si batte per riprendere le nostre vite nelle nostre mani! Insieme possiamo vincere!
Evento centrale di solidarietà a Salonicco mercoledì 26 giugno nello spazio sociale liberato “Scholio”.
VAS.GEORGIOU & BIZANIOU str.
Dalle 9 del mattino, massiccia distribuzione di prodotti di pulizia ecologici realizzati nella fabbrica autogestita. In serata, concerto di solidarietà di rebetiko.

viome.org biom-metal.blogspot.gr
Traduzione in italiano a cura di DinamoPress