domenica 22 settembre 2013

Commissione sindacale FdCA

ILVA : LA NAZIONALIZZAZIONE COME SOLUZIONE?


Di fronte all'evolversi della tragedia ILVA, da più parti si invoca la nazionalizzazione come risposta alla strafottenza e all'arroganza della famiglia RIVA, una risposta radicale e di classe che tramite esproprio salverebbe capre e cavoli, letteralmente produzione e ambiente. Come quando a suo tempo si parlava di nazionalizzazione delle banche. Peccato che non sia così.
Chi invoca lo Stato a garante della collettiità fa finta di non vedere che sulla questione ILVA (e non solo su questa) il ruolo dello Stato come garante è già stato esercitato in pieno, sia durante la passata nazionalizzazione in passato, dove sono state gettate le basi per il disastro di oggi, sia nei processi di inquinamento che nei ladrocini e in tutte le schifezze che conosciamo, sia nella fase di proprietà di RiVA, a maggior ragione oggi. E da che parte è schierato lo Stato lo sappiamo ben, lo Stato ha sempre continuato a svolgere il suo ruolo fondamentale di garante della finanza mondiale e dei suoi “contratti”e di custode della proprietà del capitale con quel che ne consegue, abbandonando da tempo ogni finzione di terzietà e di forme di inclusione dei lavoratori.
Ma la questione è più generale e vale la pena approfondirla.
Chi conosce la storia del movimento operaio che sulle collettivizzazioni si è innestato lo scontro tra l’organizzazione politica (partito) e organizzazione di resistenza (sindacato), sopratutto nei momenti più alti dello scontro di classe (salvo scomparire del tutto nelle società post- rivoluzionarie dove il sindacato esiste solo formalmente , il partito si fa stato e le istanze dei lavoratori scompaiono).
Ma anche allora la scelta si è sempre posta tra controllo dei lavoratori sui processi di produzione, quindi sul modo di produzione capitalista sino ad attuarne una sua radicale trasformazione, oppure la statalizzazione che in nome degli stessi controlla le fabbriche e più in generale i luoghi di lavoro.
Da un lato il protagonismo dei lavoratori dall’altro lo Stato per il quale i lavoratori sono soggetti da “educare”ben che vada.
Quando nel 1910 in Inghilterra il partito laburista (unico esempio della storia di partito politico direttamente creato dal sindacato, e che rimane di fatto nelle mani del sindacato) propone la nazionalizzazione delle miniere di carbone i minatori del Galles del sud e la UNION che li organizza rispondono con uno sciopero durissimo, dove i lavoratori rispondono politicamente mettendo in circolazione un opuscolo contro la nazionalizzazione e le posizioni di politica sindacali definite ortodosse:
lo stato è un nemico quanto i padroni i lavoratori devono essere in grado di assumere il controllo della loro industria e di dirigerla con un sistema completo di controllo operaio”.
Ora la situazione è ben diversa, decenni di manovre per estromettere i lavoratori da tutti i processi decisionali, bloccandone qualsiasi intervento diretto, utilizzando tutto, compresa la divisione e l’impotenza delle organizzazioni di rappresentanza sindacale , i ricatti, approfondendo all'esasperazione la contraddizione fra ambiente e lavoro che si è determinata, spingendo i lavoratori del nord colpiti dalla serrata contro quelli del sud, mentre pezzi dello Stato si danno battaglia sopra di loro.
Ma l'unico modo che hanno i lavoratori per uscire da tutto questo non può che passare per la ripresa di protagonismo da parte dei lavoratori: nessuna richiesta di tutela a uno Stato complice del disastro, nessuno sconto e nessuna sudditanza a Riva e ai suoi sgherri nelle fabbriche, ma occupare i 7 stabilimenti chiusi, autorganizzandosi per riprendere le produzioni, denunciando al contempo le insufficienze e le colpevoli omissioni sulla sicurezza ambientale e sul lavoro, costruire e “muovere”da una posizione di forza e di unità dei lavoratori, dal Piemente alla Puglia.
E, intorno, chiedere e ottenere una rete di solidarietà attiva di protezione e di condivisione nei territori, da parte di tutti quei soggetti impegnati da tempo nel costruire forme di costruzione di alternativa economica e sociale. Solidarietà che non mancherà e non può mancare.
CS FdCA, 22 settembre 2013

lunedì 16 settembre 2013

16 settembre 1982: Sabra e Chatila


na tav

L'OMBRA DEI SERVIZI SEGRETI SULLA VALSUSA

Nello scenario di altissima tensione che in Val di Susa continua a contrapporre le ragioni dei No-Tav a quelle del governo, l’allarme dei servizi segreti sul rischio di una deriva terroristica della protesta suona come un sinistro presagio. Qualcosa potrebbe accadere, ma gli oltre vent’anni di barricate nella Valle hanno insegnato che a «preparare qualcosa» potrebbero essere degli elementi estranei al movimento No-Tav. Frange “deviate” dell’intelligence, votate alla provocazione al fine di colpevolizzare i gruppi di opposizione alla grande opera, la cui presenza in Val di Susa non è una novità. Parliamo di fatti mai chiariti del tutto, risalenti alla seconda parte degli anni ’90: quindici attentati e sei pacchi bomba rimasti senza un colpevole.
Diciamolo subito, trovare un filo per queste vicende non è semplice. Sono troppi i misteri di una piccola valle, tra le più belle del Piemonte, messa suo malgrado al centro di interessi politico-affaristici grandissimi che spingono per la realizzazione di un’infrastruttura faraonica, di discutibile utilità e con un forte impatto ambientale.

Le prime bombe -
Inevitabilmente il clima di scontro, forse esasperato dalla prospettiva degli espropri necessari alla posa dei binari della Torino-Lione (si parla di diverse centinaia di edifici interessati), ha portato già nella seconda metà degli anni '90 all'utilizzo da parte di qualcuno di metodi di opposizione poco ortodossi: un macchinario edile incendiato, una cabina elettrica danneggiata. Gesti isolati ai quali però sono andate sommandosi ben presto altre azioni compiute con modalità più professionali e rivendicate da strani gruppi di eco-terroristi. Sigle sconosciute che sono apparse e scomparse nel giro di pochi mesi senza lasciare traccia, con modalità che potrebbero sembrare studiate a tavolino.
La prima molotov scoppia nella notte del 23 agosto 1996 nei pressi di Bussoleno contro una trivella nel cantiere della società Consonda. Nei due anni seguenti si susseguono altre quattordici esplosioni contro vari obiettivi tra cui il portone di una chiesa, un ripetitore televisivo e un cavo a fibre ottiche della Telecom. Otto attentati vengono rivendicati dalla sigla “Valsusa Libera” mentre altri ancora dai “Lupi Grigi”. Quest'ultimo è un nome un po' strano per un gruppo che i magistrati pensano appartenere alla galassia dell'estrema sinistra, perché è lo stesso utilizzato dai terroristi della destra turca. Ma c'è un'altra stranezza. La paternità degli atti terroristici compiuti da “Valsusa Libera” e dai “Lupi Grigi” arriva quasi sempre con testi caratterizzati da un'ideologia confusa, con riferimenti a figure apparentemente distanti, dal bandito Cavallero ai partigiani Maffiodo e Trattenero. È proprio allora che, secondo il Corriere della Sera del 6 novembre 2005, gli inquirenti si fanno per la prima volta domande «su un eventuale coinvolgimento dei servizi segreti». L’accusa viene respinta direttamente dai sedicenti eco-terroristi, gli stessi che in un profetico volantino si diranno certi che «alla fine i servizi immoleranno alla stampa qualche ragazzotto di campagna». Vere o deliranti che possano apparire queste ipotesi complottiste, è bene ricordare che qualcosa di simile succede davvero.

Sole, Baleno e Silvano -
Nel corso delle indagini per individuare gli esecutori degli attentati, la Procura di Torino sostiene la tesi secondo cui tutti gli atti eversivi sono riconducibili ad un unico disegno criminoso. Seguendo ciecamente questa pista nel marzo 1998 si arriva al fermo dei presunti responsabili. Sono tre anarchici, occupanti abusivi dell'ex obitorio di Collegno: Silvano Pellissero, Edoardo Massari e la sua compagna argentina, Maria Soledad Rosas. “Blitz contro gli eco-terroristi”, titola La Stampa all'indomani degli arresti, dipingendo i fermati come “squatter con la passione delle armi”. Interrogati in questura i tre si dichiarano fin da subito estranei ai fatti.
Massari, detto Baleno, è un personaggio noto alle forze dell’ordine per la sua militanza antagonista. Probabilmente in questa vicenda ci finisce per caso e dopo l'arresto non regge all'incubo di dover scontare quindici anni di galera da innocente. Secondo la versione ufficiale, si suicida in una cella del carcere delle Vallette il 28 marzo 1998. Baleno è la prima vittima nella lotta alla realizzazione della Tav, ma non l'unica. Appena tre mesi dopo anche la sua compagna, Maria Soledad Rosas, detta Sole, si toglie a sua volta la vita in una comunità di Bene Vagienna. In carcere rimane, con l’accusa di associazione sovversiva, solo Silvano Pellissero, quarantenne di Bussoleno. La Procura gli contesta la devastazione e il successivo incendio del municipio di Caprie avvenuta il 15 gennaio 1998, un episodio che i PM Laudi e Tatangelo ritengono provante del collegamento esistente tra gli anarchici e i “Lupi Grigi”. Pellissero è un colpevole perfetto, dal momento che tra i suoi precedenti spicca un arresto per possesso di armi ed esplosivi. Una vecchia storia la cui importanza per provare l'interesse dei servizi segreti alla Val di Susa è però tutt’altro che trascurabile.

“Il pollo alla dinamite” -
Sono le 19.00 di mercoledì 24 marzo 1981. In una borgata di Bussoleno un’improvvisa esplosione fa saltare in aria un pollaio di proprietà della famiglia Pellissero. Quando i vigili del fuoco intervengono per spegnere il rogo si trovano inaspettatamente di fronte a un campionario di dinamite, tritolo, fucili da guerra e bombe a mano.“Il pollo alla dinamite”, titola sarcasticamente Luna Nuova. La scoperta di armi da guerra nella Valle lascia spazio a tante ipotesi campate in aria, non ultima quella di una cellula terroristica.
All'epoca Silvano Pellissero ha solo vent'anni e vive lontano da casa perché sta svolgendo il servizio militare. Le armi appartengono a suo padre, indomito partigiano che si era sempre rifiutato di consegnare il suo piccolo arsenale. Lo teneva lì, nel pollaio, come cimeli del tempo che fu. Nel processo viene dimostrato come quella artiglieria fosse ridotta ad un cumulo di ferraglia, in buona parte inutilizzabile, ma ciò non sottrae i soli due uomini della famiglia, Silvano e suo padre, a una condanna a due anni con la condizionale. Ad arrestarli è il maresciallo dei carabinieri Germano Tessari, soprannominato Tex, già uomo di fiducia del generale Dalla Chiesa. Per una casualità, quasi vent'anni dopo lo stesso maresciallo sarà anche collaboratore del magistrato che indagherà sugli attentati attribuiti ai “Lupi Grigi”.

Armi, 007 e misteri -
Le cronache si interessano al maresciallo Tessari nei primi anni '90 quando viene coinvolto nello strano caso della Brown Bess, un'armeria di Susa dalla quale spariscono 397 pistole. Un traffico di armi che sarebbe stato organizzato direttamente da uomini appartenenti agli apparati di sicurezza. Ad affermarlo sono gli stessi armaioli. «Secondo la difesa», si legge su La Valsusa del 15 gennaio 1998, «i gestori dell'armeria erano convinti di rendere un servizio allo Stato collaborando con i servizi segreti».
L'inchiesta si trasforma ben presto in «un vespaio», nel quale si verificano intimidazioni ai magistrati, ai testimoni, ai giornalisti e a chiunque si occupi del caso. Minacce che, secondo quanto un inquirente dichiara a La Stampa, «non si sono limitate alle parole».
Sul banco degli imputati finisce anche un agente dei servizi segreti, tale Franco Fuschi. Nel 1999, dopo aver confessato ben 11 omicidi (alcuni dei quali per conto del SISDE), nonché la sua responsabilità in alcuni falsi attentati attribuiti ai sedicenti “Lupi Grigi”, Fuschi viene condannato all'ergastolo. Le accuse contro Tessari vengono invece archiviate dal tribunale, mentre le reali responsabilità dei servizi segreti rimangono un nodo irrisolto.
L'inquietante intreccio di bombe, 007 e misteri irrisolti rappresenta il quadro d'insieme nel quale nel 1998 vengono condotte le indagini sugli eco-terroristi che porteranno all'arresto dei tre anarchici. Un provvedimento evidentemente troppo frettoloso visto che nel 2001 la Corte di Cassazione di Roma invaliderà l'accusa di attività terroristica con finalità eversive per l'unico sopravvissuto, Silvano Pellissero.
Di Soledad-Sole e Edoardo-Baleno rimane invece soltanto il rispettoso ricordo. Alla loro storia e a quella di Pellissero è dedicato “Le scarpe dei suicidi”, bel libro scritto da Tobia Imperato che rappresenta una accurata e preziosa cronaca dei fatti. Oggi, nell'ora più delicata per le sorti dello scontro in atto in Val di Susa, sarebbe bene che i magistrati della Procura di Torino si ricordassero di loro. E magari anche di quella frase sibillina, scritta da qualcuno molti anni fa: «Alla fine i servizi immoleranno alla stampa qualche ragazzotto di campagna».
Massimiliano Ferraro